Giulietta

DEL TEATRO • 08/03/2010

Nel giorno dedicato alla "festa" (?) della donna, la Fondazione Aida di Verona ha presentato il monologo di Monica Ceccardi, diretto da Lorenzo Bassotto, tratto dal film visionario di Federico Fellini. Un modo non scontato per parlare di condizione femminile nella città dei due innamorati scespiriani

Era l'8 marzo, la cosiddetta festa delle donne: festa nata con un senso e uno scopo, oggi troppo spesso ridotta a mimose forzate e cene fuori di donne vestite con abiti aggressivi. Panterate, tigrate, leopardate: queste donne a caccia di maschi e di riti collettivi sono sempre più deprimenti. Ma per le strade di Verona, la città che vorrebbe essere romantica a tutti i costi, si aggirava anche una strana Giulietta: non c'era nessun Romeo ad attenderla sotto al celebre balcone, ormai tristemente parificato ai lucchetti di Moccia da graffiti e post-it affissi ovunque. Era, semmai, una Giulietta solo, amareggiata, illusa e disillusa.

Stiamo parlando della Giulietta scritta da Federico Fellini, quella folgorante intuizione - sospesa tra autobiografismo e sogni, tra psicoanalisi e flusso di coscienza - che diventerà nel 1965 il film Giulietta degli spiriti. A Verona, insomma, la Fondazione Aida ha scelto di portare in scena questo delirante e suggestivo viaggio nel mondo interiore di una donna. Lei è là, sola in una casa-mondo, persa tra illusioni e frustrazioni: parla di sé, si perde, si ritrova. Nel lungo monologo interiore Giulietta si confronta e si svela, si cela e si maschera parlando con i suoi "spiriti", con quelle voci che sono l'unica valvola di sfogo e di confronto serrato con se stessa. Già, perché Giulietta è vittima del più antico e banale dei tradimenti: il marito, l'uomo cui ha dedicato la vita, va con un'altra. E lei, ovviamente, si mette in discussione.

È un lungo flusso di coscienza, dunque: amaro, grottesco, folle. Senza troppi romanticismi, se non quelli che la donna avrebbe voluto, avrebbe sognato. Lo spettacolo, diretto con cura e grazia dal giovane Lorenzo Bassotto, è un lieve canto, un vortice che avviluppa in un clima antichello di balera, una giostra visionaria e sconclusionata che lascia con la testa che gira e un senso d'amaro in bocca. Per fortuna il regista fa piazza pulita del "fellinismo" manierato, e ambienta la storia in un elegante spazio retrò, dove brillano lucette che potrebbero essere diamanti scintillanti. Poi c'è lei, Giulietta: ha una maschera, un trucco le copre e snatura il viso. Poi, lentamente, troverà le sue fattezze. In scena è la giovanissima Monica Ceccardi: con un tailleurino composto, fa del suo personaggio una creatura umanissima. Già tempo fa Walter Malosti e Michela Cescon si erano confrontati con il testo di Fellini: e lì, complice la scrittura nitida dell'adattamento firmato da Vitaliano Trevisan, il lavoro virava su tinte aspre, dando spazio a nevrosi e tensioni, che rimandavano più a Beckett che non al Federico nazionale.

Qui tutto sembra più morbido, sinuoso, forse più semplice, forse più vero. La Ceccardi è brava, si muove con grazia, ha sonorità e giochi vocali che potrebbero rimandare alla verve interpretativa di Ermanna Montanari, la "macchina attorale" del Teatro delle Albe, specie quando - in apertura - assume carattere e toni da bambolina micidiale. E nel bel teatro Camploy, nella zona universitaria e militare della città, Giulietta della Fondazione Aida riscuote un caldo e convinto applauso. Andrea Porcheddu

ATEATRO • WEBZINE 29/10/2013

Giulietta di Federico Fellini è il soggetto in forma di monologo di quello che nel 1965 diventerà il film Giulietta degli spiriti. La regia intimista dello spettacolo, curata da Lorenzo Bassotto, usa materiali scenografici che diventano medium per le visioni della protagonista che parla con gli spiriti, avviluppata a una tenda bianca al centro del palcoscenico, che allude a un siparietto, allo sfondo metafisico del baule di specchi quadrilateri su cui è intrecciata una corda. Le luci si scoprono violente, e la Ceccardi le anima con maschere facciali da spettro risuscitato, bambina in un corpo di donna che scivola nell’ossessione quando scopre il tradimento del marito: è questa la causa dell’accendersi in lei delle voci attraverso cui si manifestano le sue paure e i suoi desideri. La melodia aspra della voce libera i nodi delle proprie visioni, compie il rito di una seduta spiritica, accogliendo in sé lo spirito luciferino del Casanova, per poi invocare la mortificazione della carne e dare corpo al simbolismo della sagoma di una gatta doppiata sulle quinte nere. 
Filomena Spolaor

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