Mi chiamano Garrincha
LA REPUBBLICA • 17/02/2005
Va in scenaGarrincha l' uomo che faceva rimbalzare i sogni
A VOLTE la vita, come una partita di calcio, è una questione di millimetri. Dipende se il pallone colpisce il palo o entra in rete. Da questa casualità che separa l' abisso che c' è fra uno scudetto ed un secondo posto, è appeso il destino di un' esistenza, di una carriera, di un trionfo ottenuto o sfuggito banalmente di mano. Il calcio come metafora della vita, come sogno d' evasione dalla quotidianità è sempre più diventato argomento di spettacoli teatrali. Basta pensare al recente successo di Italia Brasile 3 a 2 di Davide Enia. Adesso arriva a Firenze Mi chiamano Garrincha liberamente tratto da «Lettera a mio figlio sul calcio» del noto giornalista sportivo italo-brasiliano Darwin Pastorin. La regia è di Lorenzo Bassotto e Fabio Mangolini. In scena Bassotto è affiancato dal silenzioso angelo Jana Karsaiova (Cantiere Florida, stasera ore 21, euro 12, info 0557135357). Lo spettacolo è reduce da successi, da ovazioni da stadio ottenute in tutta Italia. «Garrincha - afferma Bassotto - era l' ala destra del Brasile e del Botafogo. Fra la fine anni Cinquanta e primi Sessanta inebriava gli avversari con una finta entrata nella leggenda. Questa finta - si enfatizzava - gli era resa possibile da una gamba più corta sette centimetri dell' altra». Garrincha divenne due volte campione del mondo con un Brasile che metteva la fantasia al potere e che aveva in formazione giocatori con nomi da sinfonia: Didì, Pelè, Vavà. «Il Garrincha dello spettacolo è un magazziniere che, come l' altro brasiliano, è storpio ad una gamba. Il sogno è che la menomazione potrebbe farlo diventare famoso come il Garrincha vero. Immagina di calciare un rigore vincente ad una finale dei Campionati del Mondo. La cronaca registrata di questo gesto atletico è affidata alla voce del telecronista Bruno Pizzul. Il quale, per la prima volta nella sua carriera - grazie al nostro spettacolo - può finalmente urlare sulle orme di Carosio e Martellini, il mitico: Campioni del mondo»! Nella prima parte sono ricordati mille aneddoti dell' estroso attaccante. «Uno è legato alla Fiorentina. Nel '61 infatti il Brasile giocò nella vostra città in amichevole. Garrincha dribblò letteralmente tutta al squadra viola, poi ubriacò di finte l' ultimo difensore rimasto davanti alla rete che - disorientato - batté la testa nel palo mentre Garrincha entrava in porta col pallone». Nello spettacolo si parla anche della tragedia di Superga, dell' emigrazione, dei festival di Sanremo dove Celentano cantava 24.000 baci. Non mancano aneddoti legati ad altri campioni quali Pelè, Baggio, Maradona, Riva, Meroni. Garrincha - «l' uomo che faceva rimbalzare i sogni» - nella vita come in campo è stato genio di sregolatezza. Fu ucciso a 49 anni dagli eccessi e dall' alcool, ma pochi anni prima - quand' era campione del mondo - rinunciò ad una villetta come premio, chiedendo in cambio al governatore del Brasile che gliel' offriva, di liberare un uccellino da una gabbia. Stasera c' è un altro spettacolo legato al calcio. E' Atletico Ghiacciaia di e con Alessandro Benvenuti (ore 21, Aurora di Scandicci, euro 10, info 055757348). Qui il sudore, la polvere e il fango sono quelli dei campi di periferia. Siamo nei bar sport della provincia Toscana dove si parla di donne, calcio, politica. Roberto Incerti
SCANNER • 17/02/2005
Garrincha era un soffio di vento, era la poesia al potere, era la magia che faceva si che un handicappato, un disgraziato, un derelitto della società, uno storpio, uno destinato ai bassifondi ed al massimo a chiedere l’elemosina, un analfabeta per giunta, con un dribbling, con uno scatto, un assist, un passaggio filtrante, un goal accarezzando la palla e dandole del tu, facesse esplodere la voglia di riscatto, la gioia incontenibile, la rabbia di tutti gli emarginati della terra.
Proprio nella stessa serata in cui Alessandro Benvenuti portava in scena il suo “Atletico Ghiacciaia” a Scandicci, dopo poche settimane da “Fuorigioco di rientro” dell’ex calciatore professionista Andrea Mitri alla Limonaia, ma soprattutto sul filone di quello che è stato da tutti riconosciuto come il vero boom e successo della scorsa stagione, “Italia Brasile 3 a 2” del nuovo fenomeno giovanile Davide Enia, un altro testo sul calcio, un altro mix tra teatro e pallone.
Lorenzo Bassotto è impeccabile nel ruolo monologante del magazziniere che in comune con Garrincha ha soltanto una gamba più corta di sette centimetri ed il soprannome, mentre figura alquanto misteriosa rimane la ballerina, il ricordo, il sogno, Jana Karsaiova, che danza attorno a lui, non aggiungendo niente alla scena.
Inutili anche le innumerevoli valigie sparse sul palco.
“Mi chiamano Garrincha”, liberamente tratto “Lettera a mio figlio sul calcio” del giornalista sportivo Darwin Pastorin, è una ventata leggiadra di musica e parole, di ricordi, di nostalgie, proprio nel giorno in cui scompare Omar Sivori, una boccata di gioia dove il pallone era la vera droga e la parola doping non esisteva neanche sul vocabolario, dove c’erano ancora le bandiere e non esistevano gli sponsor, dove c’erano gli uomini e non le macchiette.
Dal ’50, anno in cui il Brasile perde in casa la finale del Campionato del Mondo con l’Uruguay in un Maracanà triste e piangente, passando per il ’58 ed il ’62 anni di trionfo nei Mondiali per l’”Uccellino” Garrincha, il piccolo, nero, brutto anatroccolo soprannominato con il nome di un volatile dell’Amazzonia, punta di diamante del Botafogo.
“Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori” cantava De Andrè, “se la merda valesse qualcosa i poveri nascerebbero senza buco del culo”, proverbio brasiliano.
Garrincha era l’angelo sporco caduto in mezzo agli dei, era l’urlo di generazioni di morti di fame, di sopraffatti, di perdenti, di sconfitti, di illusi dalla vita.
Dopo il Brasile verde oro, passando per la tragedia di Superga, Edson Arantes di Nascimento detto Pelè, le voci calde e graffiate di Sandro Ciotti ed Ameri, le figurine Panini, l’Inter del Mago Helenio Herrera ed il Milan del Paron Nereo Rocco, “colpite tutto quello che si muove a pelo d’erba, se è il pallone meglio”, e poi il gigante Charles e l’ala destra del Torino anni ’70 Gigi Meroni , capelli lunghi, una gallina a guinzaglio che dipingeva sotto i portici della città all’ombra della Mole, ed ancora Gigi Riva, detto tutto attaccato, simbolo di una regione non sua, “Rombo di Tuono”, e Anastasi che quando segnava faceva gol per tutti gli operai meridionali della Fiat.
Risuona l’urlo “Campioni del Mondo” di Martellini, l’urlo di Tardelli paragonato a quello di Munch, Zico e Maradona, “l’angelo sfrattato dal Paradiso con destinazione l’Inferno”, il gol con “La Mano di Dio”, le isole Falkland, fino a Baggio e Ronaldo.
Perché il calcio, lo sport, è la metafora della vita: c’è un avversario, la preparazione, la lotta, il successo e la sconfitta, la sfortuna e gli Dei, c’è il pubblico che ti acclama e ti fischia, ti giudica e ti fa cadere nel fango, c’è il sudore e la soddisfazione, ma c’è anche la lealtà ed i valori, i principi morali ed il rispetto dell’altro, c’è la vita dentro novanta minuti, un campo verde ed un calcio di rigore mentre in alto brillano le stelle di Scirea e Meroni, bianconero e granata, uniti nella costellazione dei campioni. Voto 8 . Tommaso Chimenti
L'UNITÀ • 06/03/ 2004
Meroni, Rocco, Herrera e Baggio: il calcio fa gol a teatro nL'EV ENTO Rappresentato a Verona l'atto unico «Mi chiamano Garrincha» tratto dal libro «Lettera a mio figlio sul calcio» di Darwin Past orin. Protagonista Lorenzo Bassotto.
«Triste questo spettacolo» si sente dire alla fine, mentre il fantasma di Gigi Meroni ancora si aggira in dribbling tra le quinte, e il sinistro di Dieguito trafigge il portiere inglese Shilton negli infiniti replay rievocati alla ribalta. «Triste questo spettacolo» è quanto confessa una ragazza seduta nella platea del teatro veronese dei Filippini, rivolta al protagonista di Mi chiamano Garrincha, Lorenzo Bassotto. Il quale, guardando negli occhi la spettatrice, tenta di interpretarne i sentimenti, e replica: «Forse, volevi dire commovente?». Bersaglio centrato, la studentessa alludeva al vago, crescente intenerimento di cui è stata preda nei settanta, lievissimi minuti di questo monologo che la fondazione Aida ha tratto dal libro Lettera a mio figlio sul calcio, ultima fatica letteraria di quell'estroso e dirompente «numero 10» del giornalismo sportivo italiano che si chiama Darwin Pastorin: cinquant'anni di partite, eroi, follie e genio pedatorio rapiti in una rapsodia ispirata per una metà alla penna di Osvaldo Soriano, e per l'altra agli album delle figurine Panini. Il «triste, volevo dire commovente» espresso a fatica dalla giovane veronese suona a commento perfetto dell'atto unico adattato dalla regia di Fabio Mangolini, su soggetto della giornalista Maria Grazia Capulli. La sorpresa di fronte a un pallone ancora in grado di emozionare, così forte da togliere le parole di bocca, manifesta il corto circuito che oggi pervade il rapporto tra il pubblico e un fenomeno sportivo sempre più monetizzato, virtuale, e privo di quel fattore umano da cui è discesa per oltre un secolo la sua popolarità. Da qui, dalla necessità di raccontare, soprattutto ai giovani, un calcio ritrovato nella memoria, scaturisce la molla del libro di Pastorin, amplificata sul palcoscenico dalla narrazione di Bassotto, che erompe in un fluire pacato quanto incalzante, secondo i ritmi antichi dei contadini abituati a tirar tardi «facendo filò» con le loro fantasie e i loro sogni a occhi aperti. Erede di quella cultura è il magazziniere protagonista dello spettacolo, soprannominato Garrincha perché, come il fuoriclasse brasiliano degli anni cinquanta e sessanta, zoppica a causa della poliomielite che, quando era piccolo, gli ha accorciato una gamba rispetto all'altra. Handicap da cui l'ala destra della Verdeoro trae il talento di una finta irresistibile, mentre questo figlio di veronesi, emigrati in Brasile dopo la fine della guerra, deve accontentarsi di una predisposizione a guardare e catturare le cose restando comunque ai margini del campo, sublimazione poetica dello stesso Darwin, a cui è bastato nascere in Brasile da genitori veneti per avere la grazia di un cuore «carioca», capace di palpitare ogni qual volta la vita gli si rivela in forma di samba: al Maracanà, esattamente come su quei campi di periferia dove la traversa delle porte si misura obbligando il minuscolo portiere di turno a saltare con le braccia tese verso il cielo. In quel firmamento di palloni persi dopo tante punizioni tirate alle stelle, il racconto di Garrincha incomincia dalle proprie origini anagrafiche, «riprendendo» il volo dalla fusoliera dell'aereo in cui nel 1949 trovò la morte a Superga il Grande Torino, e si libra fino ai Ronaldo e ai Baggio dei nostri giorni attraverso un caleidoscopico alternarsi di folgorazioni, struggimenti e parodie: l'infanzia di Pelé lustrascarpe sulle spiagge pauliste, i derby tra la Grande Inter di Helenio Herrera e il Milan all'italiana di paron Rocco, la fulminante parabola di Gigi Meroni, i malinconici furori di Gigi Riva, la solare irruenza di Petruzzo Anastasi, l'Italia tricampeone del Bernabeu, l'eleganza ineffabile di Gaetano Scirea, la calma olimpica di Dino Zoff, la bonaria genialità di Enzo Bearzot, la maglia di Zico strappata dalla ferocia di Claudio Gentile, i telecronisti argentini in delirio per i prodigi di Diego Armando Maradona. Fedele al copione tracciato dal libro di Pastorin, lo spettacolo di Mangolini e Bassotto si ritrae sulla soglia di un presente che, a differenza di quel passato, del calcio fa di volta in volta rissa, marmellata televisiva, gossip, ascia da dissotterrare per oscure guerre di potere, senza più assurgere a racconto-specchio della vita. Mi chiamano Garrincha resta invece favola fino all'epilogo quando il protagonista, portato per mano dall'angelo silenzioso che ha animato tutti i suoi ricordi (Jana Karsaiova), va finalmente in campo, a battere il rigore decisivo di una finale mondiale nascosta nel cuore di ognuno di noi. Con tanto di radiocronaca della voce registrata del vero Bruno Pizzul. Stefano Ferrio